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Poi l’architettura non e aUra cosa «II’oecliio ehe un gingillo della fantasia
od un’uggiosa convenzione arüstica se non piglia dall’uso a cui e destinata la
sua ragione e la sua efiicocia; e l’uso capirlo vivamente, partitamente da una
pallida carta, non e cosa spiccia, neanche per le persone colte e per i dilet-
tanti dell’ai'te. Insomma, se il visitatore di una rnostra lascia indietro le sale
dell’architettura, ha ragione: l’arte architeüonica serba luttavia, per la sua
natura parte di scienza, parte di eonvenienza, parte di opportunita, parte di
bellezza, qualcosa dei segreli, che le consorterie delle arti edificative meüevano
nella costruzione delle cattedrali e dei chiostri nel medio evo.
Ma nel parco tutto era lampante. La cultura popolure piü lieve, quella che
si piglia sin da bambini ne’ giornali illustrati e nelle descrizioni dei viaggi, le
quali vanno per le mani di tutti ornate con belle incisioni di monumenti, di
paesi, di tipi varii, basta a farci capire e ammirare il palazzo persiano, di cui
le inura esterne sono dal basso all’alto coperte con piccoli specchietti, che sein«
tillando al sole abbacinano gli occhi; la tenda indiana, con le sue bizzarre pit-
ture; il giardino giapponese, dove i ponticelli varcano certi laghetli angusti
per la tartaruga che li abita, zeppi di idolini, di coionnine, di tempiettini, di
grotte, di caverne e di rocce da nani; la fontnna turca, tempestata di orna-
menti e di variopinti arzigogoli; la capanna dei Laponi con le foche impagliate;
cent’altre cose euriose, rifatte appuntino come stanno al sole dei deserto o tra
le nevi dei polo.
Dall’altra parte, quando, per esempio, in una nuova forma di scuderia si
vedono i cavalli, e in una nuova forma di stalla i buoi e le vacche. 1’archi
tettura, anche riprodotta artißcialmente in una Esposizione, prende l’evidenza
e 1’anima della cosa vera.
E un magnifico frammento di paese egiziano il palazzo dei vicere d’Egitlo,
uno dei fortunati edißcii, i quali sono rimasti in piedi in queila povera parte
dei Prater, prima cosi spessa di enormi alberi fronzuti, che pareva una fore-
sta vergine, poi cosi piena di fabbriche, di gente, di allegrie, che pareva una
splendida citlä in carnevale, cd ora cosi mesla e cosi silenziosa, die sembra
un camposanto.
Non manca a quel palazzo altro che il muezino, il quäle dall’alto dei mi-
nareto annunzi l’ora della preghiera. Nella moschea, che ha l’alta cupola pog-
giata sopra un doppio ordine di loggiej nel cortiletto dell’aremme, dove una
fontanella rallegra la quiete e la frescura; nelle sale, che hanno le volte or
nate come di stalattiti d'ogni colore; nelle stanze, tutte insenature e alcove e
riposligli misteriosi, piene di soffici lettucci, di morbidi cuscini, di molti tap-
peti, su cui ci si sente tirali a passare la vita mormorando: Lode a Dio: Dio
e coi pazienti, e alternando alle boccate dei fumo di una lunghissima pipa il
beato sbadiglio; in ognä angolo insomma di quella reggia vasta e intricata si
vedeva un Turco, che, sbadigliando appunto e fumando e forse ripetendo mac-
chinalmente fra i denti un versetto dei Corano, guardava ai cristiani con oc-
chio di indilferenza, tra il pietoso e il canzonatore. C’erano de’Turchi d’ogni
foggia e d’ogni maniera, vecchi e giovanä, tutti sudici e pittoreschi, e tutti
avevano sulle labbra e negli occhi quel sorriso, che lasciava indovinare un se-
reno contentamenio di se, misto ad un filosolico disprezzo delle cose di questi?